Sinigaglia: vi racconto la mia Carmen ecosostenibile

09 Luglio 2012

MACERATA 09/07/12 – Nessuna concessione al folklore patinato. Nessuno scimmiottamento di stereotipi spagnoli. Nessuna edulcorazione della realtà, nuda e cruda, di un’opera lirica che deve recuperare la sua profonda carnalità, per prendere lo spettatore allo stomaco, al cuore, alle viscere. Per coinvolgerlo. Solo transenne e realismo. La regista Serena Sinigaglia, seconda regista donna nella storia dello Sferisterio, scava nella profondità dell’opera di George Bizet, spoglia la Carmen di orpelli e cala la rappresentazione nel 21° secolo, un’epoca difficile in cui l’opera deve essere da esempio, cambiare e far cambiare.

 

Da dove è partita per rappresentare un’opera di fine ottocento, oggi, nel 2012?

 

Quando vuoi fare qualcosa che resti, è necessario collegare in una sintesi artistica antico e contemporaneo. E per farlo avevo bisogno di togliere tutto ciò che mi impediva di andare alla radice più profonda dell’opera. Perché Carmen oggi ha bisogno di ritornare alla carnalità, all’efficacia del gesto scenico che possa emozionare, colpire in modo diretto. Muovere il cuore. Niente folklore quindi, nessun riferimento alla Spagna patinata o agli zingari stereotipati. Gli zingari sono zingari in una periferia degradata; Don Josè è un violento, mentalmente disturbato, e Carmen è una zingara, ladra e puttana. Non bella dal punto di vista dei canoni estetici, ma irresistibile, perché carismatica e con una capacità seduttiva innata, dotata di un erotismo animale, cupo e puro insieme.

 

Come sarà rappresentata questa seducente Carmen sul palco dello Sferisterio?

 

Ho studiato a fondo quest’opera, i suoi personaggi e le ambientazioni. Fino a scovare in Spagna una comunità gitana. E’ la più grande del mondo e si trova alla periferia di Siviglia, in una Chabola, ossia la baraccopoli ai margini della città. Dall’immaginario delle chabolas ho tratto gli spunti per costumi e scenografia, mettendo il tutto in grande sintonia con lo Sferisterio. Il sapore di una periferia disagiata e disastrata poteva essere perfettamente rappresentata in uno spazio come il palco dell’arena di Macerata, a partire dall’immagine forte del muro che segna un confine ideale tra il mondo civile, borghese e civilizzato, e il palco, che rappresenta la periferia del mondo, che crepa di fame a livelli indecenti. Un pezzo di muro è rotto e sul pavimento solo macerie e detriti da degrado urbano, cumuli di intonaci su ghiaia. L’unico elemento modulare che simboleggia il conflitto tra gli opposti, che si fronteggiano sul palco e nell’intimità dei personaggi, sono le transenne. Tutta Carmen in una settantina di transenne, arrugginite e invecchiate, che vanno a definire le geometrie dei luoghi, fino a scomparire nel quarto atto. Nessuna scena fissa, con elementi che evocano distanze e conflitti. E’ difficile fare teatro così, perché è l’elemento umano che evoca un’azione.

 

Quanto è importante il ruolo dell’elemento umano nelle sue rappresentazioni.

 

La differenza tra bello spettacolo e brutto lo fa proprio l’elemento umano, la sua creatività e la capacità di costruire relazioni tra le persone legate da un’urgenza comune. Non si fa questo mestiere solo per guadagnare, ma perché vuoi donare all’altro. In questa ottica, il dato economico smette di essere ricattatorio. La mia generazione deve affrancarsi dal ricatto del danaro. Tutto il festival sta lavorando con ritmi e condizioni economiche che soltanto cinque, sei anni fa sarebbe stato impensabile. Una singola rappresentazione sarebbe costata tanto quanto l’intero festival 2012. Proprio per questo mi piace pensare che qui siamo i primi a ribaltare il discorso. L’opera lirica è sempre stata la regina ricca degli spettacoli dal vivo. Ed è bello e giusto che proprio la lirica cerchi una risposta gioiosa e rivoluzionaria alla crisi economica in corso. Con una rivoluzione che parte dal sacrificio degli artisti, e che sia da esempio ai più giovani.

 

Rientra in questa ottica quello che lei definisce uno spettacolo eco-sostenibile?

 

Già, vogliamo dimostrare che si può fare grande teatro, mettendoci grande cuore, grande pancia e grande testa. Faccio parte di quella generazione che ha ereditato sperperi vergognosi, inutili e spesso ingiusti, differenziazioni di trattamento inaccettabili. E oggi ci troviamo di fronte a due scelte: finire di usare quel poco che c’è; oppure tentare di fare una cosa diversa, provare con i pochi mezzi che ci sono a rilanciare un mondo, con un altro modo di lavorare, un’altra forma mentis, che non consumi ma rigeneri. Noi italiani diamo il meglio nelle situazioni drammatiche. Qui, allo Sferisterio, nel 2012, vogliamo riportare tutto a terra, ribaltando l’assioma che vuole da sempre che un bello spettacolo sia anche costoso. Non sprecheremo risorse inutilmente, e permetteremo a questo festival di durare per sempre.

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